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MILIARDI, GIOCHI SPORCHI – Barbara Yukos, Sochi

Sochi

 

A guardare quel gruppo di donne col fazzoletto alla kolcosiana annodato in testa, chine sulle scope di saggina a ramazzare i gradoni di Casa Italia nel Villaggio Olimpico costiero, si direbbe che in Russia nulla sia cambiato da decenni. Eppure, stasera nello stadio Fisht che ancora sembra addormentato sulla spiaggia del Mar Nero, il paese di Putin si gioca la reputazione, 34 anni dopo Mosca 80. Tutto è pronto per l’inaugurazione, e forse finalmente, dopo le polemiche sulle “Olimpiadi Invernali subtropicali”, i diritti gay, i calcinacci ancora in giro, i costi esorbitanti, corruzione e rischio terrorismo, da domani la parola passerà allo sport. 

Finora gli oltre 10 mila giornalisti accreditati si sono dedicati a tutt’altro, con un record di corrispondenti politici presenti rispetto agli esperti sportivi, come mai prima forse. Molti, specie gli occidentali, pronti a cogliere in fallo l’Orso alla sua prova del nove, con un’aria da primi della classe. Specie gli americani, che hanno inondato Twitter di commenti sarcastici sulle “Olimpiadi del terzo mondo” a partire dall’acqua gialla “pericolosa” dei bagni negli alberghi non terminati. Rosiconi, complesso di superiorità?

IL PORTAVOCE DI PUTIN, Dmitri Peskov, ha una sua teoria: “Non sempre chi è forte, di successo, ricco e sano è amato. E ora noi siamo così”. Piccato anche il ministro degli Esteri Lavrov, ieri tedoforo insieme a Ban Ki-moon: “È stupido contare quanti leader stranieri parteciperanno alle Olimpiadi”, e sui boicottaggi, ricorda, non è il paese ospitante ma il Cio a fare gli inviti: “Ci congratuliamo con i politici mondiali ed europei che hanno un’opinione tanto alta di sé da aver rifiutato”.

Intanto atleti e addetti vivono segregati nella “fortezza olimpica” che Putin ha fatto costruire per allontanare ogni ombra di terrorismo: tra barriere di ferro, gate, metal detector e 40 mila uomini della sicurezza camuffati in leggiadre divise olimpiche viola. Ma al contrario dei media promuovono la Russia, elogiando organizzatori, stadi e infrastrutture “splendide”, quello scenario tra mare e monti che ricorda il Libano. “Sono stupita dalla cortesia dei russi”, dice Amy del Comitato Olimpico Usa. Nella Cittadella olimpica, i nomi di strade e piazze copiano quelli del centro di Mosca. Qualcuno l’ha chiamata Putingrad. Il “castello fatato” dell’ultimo zar, tra Disneyland e Dracula, con banderuole segnavento e due torrette (dove dormirà Vladimiro? si chiedono tutti), sta proprio nel mezzo: il presidente vi farà base durante i Giochi, ma riceverà gli ospiti internazionali nell’ex sanatorio sovietico Lenin, lontano da qui. Martedi il capo del Cremlino è sbarcato nel Villaggio scaldando l’atmosfera, per convincere tutti che le sue Olimpiadi sono buone e giuste: ha parlato in inglese, sorriso moltissimo, si è lasciato fotografare con due ganze atlete americane, e ha giurato di voler proteggere la natura. “Rosiconi” anche gli ecologisti che lo accusano di aver devastato l’ecosistema della zona per far posto al suo sogno megalomane? Pare Vladimir abbia ricevuto anche una cassa di birra “pro-gay” dalla Scozia: l’avrà bevuta? Giusto di fronte al suo maniero c’è il quartier generale azzurro. Alla sfilata di oggi, il nostro paese farà una scelta di rigore, annuncia il presidente del Coni Malagò: “Sfileremo solo con atleti e tecnici”. E la sera, spaghettata con Letta, che ha promesso di pronunciarsi sui diritti umani e contro la legge anti-gay russa.

Intanto al media center è record di presenti di “orientamento sessuale non tradizionali”, come direbbe la Duma. I 25 mila giovani volontari si affannano per parare le falle dell’organizzazione, gentilissimi continuano a scusarsi in inglese per i disagi: “Non ci aspettavamo venisse tanta gente”, confessano i gestori di uno dei pub-tendone alla Casa Russia, il “ghetto dei giornalisti” , cinto da una rete di ferro ma dove ai check point i poliziotti non controllano più e ti salutano amichevoli, allibiti davanti alle torme di occidentali che si azzannano per una birra. E se l’acqua gialla è una rarità, qualcuno per dormire ha tranciato i cavi elettrici di una lampada senza interruttore in camera, “come quelle per gli interrogatori del Kgb”.

Poi c’è la Sochi “vera”: la città che dà il nome ai Giochi sta a 30 chilometri. Alla stazione ferroviaria, davanti a un metal detector vegliato da 10 poliziotti, all’ennesimo controllo una vecchietta curva sul bastone da passeggio sbotta: “Dicono che chi sale a Krasnaya Polyana (sede delle gare in alta quota, ndr) non può portare cibo e bevande. E come pensano che sopravvivo?”. Finalmente è caduta la neve su a Rosa Khutor. Sofia, venditrice di souvenir, spera arrivino i turisti: “Ora la città è cambiata, bellissima, ma quante ne abbiamo passate, mesi di cantieri, sporco ovunque, luce a intermittenza”.

Blindata l’Olimpiade, la paura è che il jihad islamista colpisca obiettivi più facili e “morbidi”, la rete di trasporti e le città della regione circostante del Nord Caucaso. In cielo dirigibili bianchi pattugliano passi di montagna e spiagge, poi navi militari e gli occhi spioni delle telecamere della polizia onnipresenti. Ma dentro il Villaggio, la tenaglia della sicurezza è quasi invisibile, anche se gli atleti ammettono: “Non ci fanno uscire neanche per scherzo”. Il sogno dei russi è la finale di hockey. Per vincere, il Cremlino si affida alla fede: il Patriarca Kirill ha benedetto gli atleti e ha loro regalato un’icona, come andassero in guerra. Rischio attentati? “Noi russi siamo abituati a guerre e minacce continue. Serve una resistenza spirituale e civile”, ci dice l’arciprete Vsevolod Chaplin, cappellano della nazionale. “Qui ci sono 6 chiese per altrettante fedi: di solito i Giochi ne ospitano una”. Ma finora gli atleti di Mosca non vi avrebbero messo piede. Confidano in qualcos’altro.

Da Il Fatto Quotidiano del 07/02/2014.

 
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Pubblicato da su 7 febbraio 2014 in ATTUALITÀ & CRONACA

 

Corriere della Sera Nicola, ucciso e bruciato a Cosenza, il suo Boia merita l’Inferno – Claudio Magris

 

cosenzaTalora si fa fatica a rimanere contrari alla pena di morte e oggi è difficile pensare che il posto più consono agli assassini — sicari e mandanti, egualmente immondi, di tre persone, fra cui un bambino di tre anni, Nicola, ucciso e bruciato al pari degli altri — non sia la forca o altra analoga soluzione acconcia. Il sangue di Nicola — come quello di Domenico Gabriele massacrato mentre giocava a calcetto, di Giuseppe Di Matteo sciolto nell’acido e di molti altri bambini — è una macchia incancellabile che sfigura la faccia del mondo. È una sconfitta che dimostra come la guerra contro la malavita organizzata sia, nonostante molti sforzi generosi ed eroici sacrifici, una guerra perduta e destinata a essere perduta se non viene condotta altrimenti. Gli antichi greci avevano due termini per indicare la guerra o meglio due tipi di guerra. Uno indicava la guerra per così dire limitata già nei disegni iniziali, quella che si propone non di distruggere l’avversario, ma di indebolirlo, di contenerlo, strappandogli un buon bottino e limitando le sue possibilità: quando la Francia e la Germania si scontrano nel 1870 nessuna delle due pensa, in caso di vittoria, di distruggere Berlino o Parigi, ma solo di rendere l’avversario meno temibile e di portagli via qualcosa. L’altro tipo di guerra è quello che prevede e persegue, quale obiettivo inevitabile, la distruzione dell’avversario: Roma che sparge il sale sulle rovine di Cartagine mai più risorta, la Germania rasa letteralmente al suolo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Contro la malavita organizzata, merdosa macelleria, lo Stato non persegue — forse non lo può, forse non lo vuole — una guerra di annientamento, bensì di contenimento, che non esclude trattative, patteggiamenti, compromessi. La malavita organizzata è un cancro e un cancro non può essere contenuto, arginato, ridotto in certi limiti. Può essere solo estirpato, amputato e poi gettato nelle immondizie. Forse non è materialmente possibile, in questo caso, amputarlo — forse perché si è già infiltrato in alcuni organi vitali dello Stato, forse perché la guerra d’annientamento è difficilmente compatibile con la normale vita burocratica, forse per impossibilità oggettiva o per altre ragioni. Ma se non è possibile, bisogna sapere di aver già perduto e che si può soltanto cercare di limitare le perdite, di salvare il salvabile.
Non perdiamo troppo tempo a parlare degli assassini, secondaria manovalanza del massacro. Protagonisti sono le vittime e specialmente Nicola. È morto a tre anni e la sua morte grida vendetta più del sangue di Abele, ma non è giusto pensare solo alla vita che non ha avuto. Anche la sua esistenza, come dice una pagina memorabile di Stefano Jacomuzzi a proposito di un bambino morto per malattia, è stata «piena di fatti, di parole, di sentimenti, voglie, grida, risa, pianto, corse, gioconde ghiottonerie, interrogazioni, stupori». In quei suoi tre anni Nicola probabilmente ha vissuto più dei suoi automi assassini. È soprattutto lui che conta in questa storia. Quanto ai suoi boia, per fortuna il Signore che accarezza i bambini è anche quello che ha sterminato con una lava di fuoco Sodoma e Gomorra. Talvolta viene da sperare che l’inferno davvero esista e sia eterno.

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Pubblicato da su 22 gennaio 2014 in ATTUALITÀ & CRONACA

 

Rende-Cosenza, la metro senza ritorno

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Che città strana, Rende! Borgo di quarantamila anime adagiato ad oriente del fiume Crati, non ha quasi mai vissuto di luce propria, bensì riflessa. Il rapporto di attrazione e repulsione con la limitanea Cosenza, trova la metafora migliore nel lungo viale che avrebbe dovuto unirle. Dedicato ai rispettivi patriarchi politici del novecento, i socialisti Cecchino Principe e Giacomo Mancini, il boulevard s’interrompe proprio all’altezza del confine amministrativo tra i due Comuni. In mezzo scorre un fiumiciattolo. Ma, quasi a voler segnare il distacco, nessuno ha mai pensato di costruirci sopra un ponte che colleghi i due tronconi del viale. Considerata da molti un’appendice periferica del capoluogo Cosenza, Rende rimane comunque legata a filo doppio alla città bruzia. Nel bene e nel male. Non soltanto per l’università di Arcavacata, con i suoi cubi color rosso mattone e con il più grande campus universitario in Italia, ma anche per gli scandali e le infiltrazioni mafia-politica susseguitisi in questi anni. Che hanno portato alle dimissioni del sindaco e all’insediamento della commissione di accesso. Le cosche di Cosenza avrebbero egemonizzato il comune rendese – a detta della procura antimafia – accasandosi all’interno della struttura comunale, gestendo settori importanti, dal servizio mensa alla concessione del bar. Gli appalti sarebbero stati affidati ad imprese che vedono apparire come soci e lavoratori, i familiari e i sodali del clan Lanzino tra cui la figlia della compagna di Ettaruzzo Lanzino, capo indiscusso dell’omonima ‘ndrina, e Michele Di Puppo, elemento apicale a cui due politici, l’ex sindaco, Umberto Bernaudo e il consigliere provinciale, Pietro Ruffolo, entrambi del Pd, avrebbero fornito agevolazioni per la costituzione di una società in house. Che avrebbe rappresentato null’altro che un serbatoio di occupazione (e di voti) per picciotti e mammasantissima. Al momento sono solo ipotesi che dovranno essere verificate dalla magistratura. Però le ombre su Rende permangono anche dopo il recente decreto con cui il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha stabilito che il Comune non sarà sciolto.

“Metro leggera”, danni pesanti

Che città strana, Rende. Legata a filo doppio a Cosenza da un progetto di metropolitana da molti ritenuta inutile, a rischio, e sovradimensionata. Decine di milioni serviranno solo per aprire il cantiere della cosiddetta “Metropolitana leggera Cosenza-Rende”. Una barca di soldi che, con ogni probabilità, affonderà nella palude degli sprechi e delle disfunzioni, in una regione travolta da un disastro delle infrastrutture sotto gli occhi di tutti. “Il degrado delle ferrovie è opprimente -sottolinea Mimmo Gattuso, docente di Trasporti all’università Mediterranea di Reggio- eppure sembra passare inosservato almeno per le istituzioni. Basta prendere un treno lungo la linea jonica per rendersene conto. Le stazioni, un tempo luoghi di vita sociale, oggi sono degradate, assediate da erbacce, murate, o ingabbiate da orribili griglie, senza obliteratrici, biglietterie, servizi igienici e fontanelle. Uno scempio che dissuade sempre più i cittadini dall’uso del treno, per non dire dei turisti o viaggiatori occasionali”. Una politica dei trasporti mortificante, che persevera e umilia tutto un popolo. “In due anni sono stati soppressi una ventina di treni a lunga percorrenza in nome di un falso efficientismo, sono stati chiusi 41 km di linea della piana di Gioia Tauro, permane ormai da un lustro una frana che ha tagliato le relazioni ferroviarie montane tra Catanzaro e Cosenza, ci sono voluti ben 16 mesi per ripristinare un ponte ferroviario a Marcellinara che univa la costa tirrenica e quella jonica, è stato tolto il servizio ferroviario tra Calabria e Puglia, sostituendo i treni con autobus. E nel campo della logistica sono stati cancellati gli scali merci di Cosenza, Lamezia e  Villa San Giovanni”. Basterebbe poco a politica e dirigenza ferroviaria per cambiare registro. Una serie di “piccole” opere per abbandonare una situazione da terzo mondo, un “trasporto equo sostenibile”, per usare le parole di Gattuso. E invece tutto è fermo, tranne i soliti progetti di cattedrali nel deserto. Come la metro leggera Cosenza-Rende. “È in realtà una tranvia – precisa Gattuso – ma assolutamente sovradimensionata, con tempi di costruzione che lieviteranno sicuramente rispetto alle previsioni. Il progetto stride con la domanda di mobilità dell’area (38 mila utenti nel 2014, 48 mila nel 2020, 2500 passeggeri nell’ora di punta). Infatti una linea di tram efficace si giustifica con flussi maggiori (100/200 mila passeggeri e 10 mila utenti nell’ora di punta). La debole domanda di mobilità stimata si ripercuote nello scarso numero di veicoli in cantiere, una decina, e nella frequenza (una corsa ogni 20 minuti)”. Gli fa eco Mario Bozzo, uno dei promotori del comitato: “Il progetto si basa su dati inattendibili. Persino la cifra di 40mila viaggiatori è irrealistica. La metro sarebbe periferica rispetto alla maggioranza della popolazione”. Indignatissimo anche Pino Iacino, già sindaco della città negli anni settanta: “La metro è un intervento che porta più danni che benefici. Inoltre, è un chiaro caso di devastazione urbanistica. Gli amministratori – spiega Iacino – avrebbero l’obbligo di consultare un comitato scientifico di alto livello, invece di basarsi su dati fantasmagorici. Il progetto non può essere il risultato di un confronto tra singoli, ma bisogna coinvolgere la totalità dei cittadini. È fuori dalla realtà la stima di 40mila viaggiatori su una popolazione di 120mila. Noi facciamo una valutazione da 5mila. Costi di gestione incompatibili con gli introiti, deficit annuali che dovranno pagare i cittadini. Così si ipotecano anche i bilanci futuri degli enti locali”.

Insomma, un fallimento già prima di iniziare. L’ennesimo polpettone di ferro e cemento che, dati i tempi di costruzione (7/8 anni), rischia di non esser nemmeno ultimato dato che i fondi previsti sono comunitari. Ma a rischio disimpegno qualora le opere programmate non risultino terminate entro il 2016.

La grande salsiccia

Cosenza si appresta a essere sventrata dalla più costosa, inutile e dannosa opera pubblica che sia mai stata realizzata nella sua storia, fortemente voluta dalle potenti famiglie politiche locali. È una salsiccia da 160 milioni che tanti vorrebbero arrostire sulla propria griglia. Entro il prossimo dicembre, è previsto lo start up della Regione Calabria. Eppure, forti sono le opposizioni e i pareri contrari alla realizzazione della nuova infrastruttura. Contraria è una parte consistente della cittadinanza che sta trovando voce all’interno di un comitato spontaneo di recente formazione: “Devasterebbe viale Giacomo Mancini – spiegano gli attivisti Nometro – ormai divenuto arteria pulsante della città. I cosentini vivono su questa strada, facendoci jogging la sera, realizzandoci ogni anno la millenaria fiera di san Giuseppe, frequentando l’area liberata del parco sociale. Con la metro, diventerà invivibile, tagliata da binari, attraversata da rumorosi e invadenti vagoni”. In effetti la città tornerebbe indietro di vent’anni. Il popoloso quartiere di via Popilia e tutta la zona est, verrebbero di nuovo separati dal resto dell’area urbana. Chiare le proposte alternative del nascente comitato che sta per lanciare un flash mob per i prossimi giorni. Tutti insistono sulla necessità di rivalorizzare l’esistente. Visto che l’obiettivo è creare dei collegamenti migliori con l’università di Arcavacata, con la zona del Savuto e la Presila, sarebbe più giusto impiegare questi soldi pubblici per il ripristino della vecchia rete delle Ferrovie della Calabria. Cancellate dalle scellerate politiche dei trasporti attuate a partire dagli anni ottanta, le FC sono state smantellate per privilegiare gli interessi delle ditte private. Una volta tagliati uomini e mezzi, si è consentito l’accaparramento, spesso illecito, delle vecchie stazioni, trasformate in dimore private, quando non sono state rese inagibili dall’incuria. Calato l’oblio sulle antiche ferrovie, ne spunta già una nuova, di cui non c’è alcun bisogno.

“Ma quei 160 milioni per la metro leggera non li possiamo perdere”. È la parola d’ordine scandita dalla famiglia Gentile, plenipotenziaria del berlusconismo bruzio, e da Sandro Principe, Signore incontrastato della vicina Rende, rifluito nel Pd dopo l’eclissi socialista.

Fortemente contrario è invece il sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto, che considera questo progetto “vetusto”, per nulla funzionale, in quanto concepito decenni fa, quando il territorio presentava ben altre caratteristiche e vocazioni. Occhiuto propenderebbe per una soluzione su gomma, con un differente tracciato, in ogni caso rispettoso dello sviluppo urbano che la città sta assumendo. Ma dovrà fare i conti con equilibri che potrebbero sballottare la sua stessa Giunta. Le decisioni sul futuro di Cosenza, si prendono tra Reggio Calabria e Rende.

 di Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti, il manifesto, sabato 19 ottobre 2013

 
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Pubblicato da su 21 ottobre 2013 in ATTUALITÀ & CRONACA

 

[CLAMOROSO !!!] ECCO la PUBBLICITA’ che ha TERRORIZZATO gli INGLESI ! Centinaia di DENUNCE dopo la messa in ONDA!!!

La pubblicità deve far parlare di sè e quella della Phone4U è riuscita nell’intento, terrorizzando i bambini inglesi e collezionando denuce a raffica. – SEGUICI ANCHE SU FACEBOOK CLICCANDO MI PIACE NELLA NOSTRA PAGINA > Camera Collettiva

 

Crisi? Gli Stati Uniti d’Europa rispondono. Tutti a Firenze!

– di Simone Vannuccini

Come è stato possibile che una crisi dei debiti privati americana si trasformasse in una crisi dei debiti pubblici europei? Perché ad una forte risposta antirecessione statunitense non si è affiancato un New Deal europeo della stessa portata e dai fini più equi e sostenibili? Perché nello spazio nazionale non si creano più opportunità di progresso e la disoccupazione – e dunque anche le aspettative negative sul futuro economico e sociale – dilagano?

Quella che nel Vecchio continente poteva essere una breve recessione si sta trasformando nella nuova Grande Depressione, ed il reale motivo è e resta Politico: gli europei sono un gigante economico dai piedi d’argilla, senza un governo democratico e federale.

Vinti dalla miopia, dai miraggi del nazionalismo più antistorico e dell’incapacità di trasformare crisi in opportunità cedendo quella sovranità che ormai è nazionale solo a parole, gli europei stanno nuotando contro il corso degli eventi. Mentre la globalizzazione avanza, mentre nuovi Paesi di dimensione continentale e nuove tecnologie plasmano le regole del gioco mondiali, gli europei non riescono ad unirsi.

Eppure un’Europa federale, gli Stati Uniti d’Europa, troverebbero facilmente risorse economiche – data la forza che l’Euro esercita a livello mondiale – e politiche per spostare la bilancia dei rapporti mondiali a favore della Pace e dello Sviluppo. Potremmo essere soggetti attivi della Storia, e non semplice oggetto passivo. Potremmo fare gli interessi di milioni di persone, potremmo costruire le basi di un futuro migliore per le generazioni che verranno. Invece, ci basta fare il minor sforzo possibile, ci è sufficiente restare attaccati ai miti e alle retoriche del secolo scorso.

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Dalla crisi non si esce imbrigliando nuovamente economia e finanza nelle maglie delle regole nazionali, perché queste non tengono più. L’unica via da percorrere è quella – difficile, a volte sognatrice – di adeguare le istituzioni alle nuove dimensioni della realtà globale, costruendo una democrazia europea sovranazionale sui principi del federalismo.

Pensare che l’Europa possa tirarsi fuori da un incubo di regresso sociale e dal riemergere dei fascismi dopo aver abbandonato la solidarietà e la prospettiva politica alla base del progetto comunitario, questa è la vera utopia. Un esempio per tutti: se al rigore dei bilanci nazionali seguisse un grande Piano europeo per lo sviluppo, finanziato da Eurobonds e da una tassa ecologica sulle emissioni di carbonio, si potrebbe investire nella Ricerca e nell’istruzione, nelle industrie più innovative, nelle infrastrutture necessarie, nell’aiuto alle famiglie più bisognose.

Sta alla Politica trovare il coraggio di scelte simili, e dimostrare che essa è veramente la più alta forma di attività umana. Ma se da soli i leader non riescono a completare il progetto europeo, i cittadini devono scendere in piazza e chiedere con tutta la loro forza un cambiamento radicale, una rivoluzione pacifica.

Questa rivoluzione sta già per partire, da Firenze, l’11 maggio (ore 15:00 da Piazza dell’Indipendenza), con la manifestazione “Gli Stati Uniti d’Europa per uscire dalla crisi!”; l’invito a quello di unirsi all’evento, per dare finalmente il via ad una nuova fase della storia europea, per iniziare un vero e proprio Rinascimento europeo!

Simone Vannuccini

Ph.D student at Friedrich-Schiller-Universität Jena – The Economics of Innovative Change //

Secretary General of Gioventù Federalista Europea (JEF-Italy)

microtheory.uni-jena.de/vannuccini/

Per ulteriori dettagli:
Sito web di riferimento – www.firenze11maggio2013.135.it
Evento su facebook – https://www.facebook.com/events/357042527746428/

 

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ESPORTARE L’ITALIA NEL MONDO

E’ in periodi come questi, di crisi economica martellante, quando la politica e le istituzioni sembrano averci abbandonato, è in questi momenti difficili che noi Italiani tiriamo fuori il carattere e ci ingegniamo per produrre le nostre idee migliori.

Esiste tutta un’Italia che non si vittimizza e si rimbocca le maniche e dal nulla fa nascere idee brillanti per poter creare valore e costruire progetti che suscitano interesse e curiosità.

zummoloUno di questi è la community di Zummolo.com, un sito nato per mettere in contatto artigiani e piccole e medie imprese (note anche con la sigla PMI)  italiane con una vocazione internazionale. Esportare il made in Italy nel mondo, far conoscere prodotti italiani all’estero, presentare il nostro artigianato e le nostre eccellenze a paesi e culture lontane è forse una mission troppo impegnativa per una persona sola.

Proprio per questo Federico Bergna, 31 anni, ha deciso di creare un forum, una rete di contatti tra artigiani e PMI, articolisti e consulenti export che raccolgono informazioni, mettono in comune le proprie conoscenze e le proprie abilità per farsi un nome, guadagnare dal proprio lavoro e contribuire al bene del paese.

Dalla homepage di Zummolo (www.zummolo.com) si può vedere subito quanto vari siano gli interessi della community e quanto interesse vi sia nel far rete. Rete che cresce esponenzialmente: ogni nuovo contatto crea scambi con i membri già presenti, trova nuove opportunità, acquisisce know-how, emerge.

Ma soprattutto trova persone competenti e clienti per la propria attività.

Non solo export, ma anche forum per artigiani e PMI, un luogo per parlare di e-commerce, sprechi ed abusi, ricevere consulenze export import professionali, orientarsi nella burocrazia di certificazioni export e contratti di assunzione, conoscere meglio gli aiuti alle imprese come finanziamenti e contributi regionali, venture capital, microcredito e social landing.
Da buoni Italiani, un occhio di riguardo anche alla cucina ed alle eccellenze enogastronomiche del nostro paese, senza trascurare gli ambiti più innovativi della green economy e dell’economia sostenibile.

Ancora una volta, quindi, sono i giovani come Federico ed i suoi collaboratori ad avere buone idee per promuovere il paese.

A noi non resta che dare il benvenuto a questa nuova iniziativa e far al mondo vedere che l’Italia, nonostante tutto, c’è, c’è ancora, c’è eccome!

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Per maggior i informazioni simonecaroli@gmail.com
oppure  staff@zummolo.com

 

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